Pulp Fiction, e il tocco di Dio!
Un film che subisce una conversione…
Così inizia il più importante film degli anni ’90. L’opera che ha riassunto e riproposto un certo tipo di cinema, che ha inaugurato un modo di fare cinema, che ha esplicitato quello che tutti stavano per dire e al tempo stesso ha lasciato tutti a bocca aperta. “Pulp Fiction“.
Un’enciclopedia, come già suggerisce questo incipit. Questo è il primo punto da mettere in evidenza: il carattere di “codice” e “summa”, caratteristico di Tarantino. Definizioni, classificazioni, interpretazioni si susseguono a centinaia nell’opera, i personaggi discutono, si litigano su questioni di significati, “sensi”, convenzioni, e nomi.
Nei primi minuti:
Il pugile e la sua ragazza

Butch e Fabienne, interpretati da Bruce Willis e Maria de Medeiros
I due gangster protagonisti, Jules e Vincent:

Jules Winnfield e Vincent Vega, interpretati da Samuel L. Jackson e John Travolta
I due poi discutono anche su come “interpretare” un massaggio ai piedi. Continuamente, durante
tutto il film, sono poste in modo quasi ossessivo questioni di significato, di ermeneutica;
esplicitamente si tematizzano i codici tramite cui i personaggi attribuiscono significati alle cose, su
cui discutono e su cui sono magari in disaccordo.
La questione del “capirsi”, del collegare sensi, del “simbolico” è presente in tutti i dialoghi, dai più
ai meno rilevanti nella trama. Stabilito questo, vediamo da dove cominciare…
Premessa
Il citazionismo “enciclopedicoSimbolico, che crea collegamenti e riferimenti.” di Tarantino esplode in questo film, che è un vero e proprio collage di generi, atmosfere, colori, riferimenti. Esaminare nel dettaglio, archeologicamente, questo monumento richiederebbe molto tempo e competenze che il sottoscritto non ha. L’obiettivo di questo articolo non è analizzare e trattare da un punto di vista “tecnico” e scientifico il film, ma più “spirituale”. Qui non interessa cogliere le figure che questo capolavoro prende e rielabora dalla storia del cinema e dalla cultura postmoderna, non interessano le immagini “in sé”, ma le immagini in relazione al resto dell’opera e al suo senso, al suo “muoversi”. Le citazioni di per se stesse sono i mattoni, il materiale che Tarantino, maniacale cinefilo, usa per costruire la sua cattedrale, il suo labirinto di senso, o meglio di sensi, ma cosa c’è in mezzo? Cosa fa da “calce” e da collante? Che valore hanno davvero le frasi dette dai personaggi?
Come Mia sa, non c’è nessun valore nei discorsi dei personaggi, in se stessi “puttanate”, e nelle
pause c’è solo silenzio che “mette a disagio”. Puro nichilismo.
Se ci fermassimo qui, tutto il film, tutte le sue storie, tutta la sua meraviglia, ci apparirebbero sotto una luce grigia, smorta e claustrofobica di un polveroso teatrino di burattini.
È tutto qui?
L’idea di questo articolo nasce qualche mese fa. Parlando del film in questione con un amico, abbiamo discusso per un po’. Proprio non mi andava giù che lui lo definisse un film “nichilistico”, un giocattolone divertente, folle, erudito e intrigante, ma in fondo un documento testimone del postmoderno, dell’assenza di senso, e basta. In un primo momento, sentita questa definizione semplice e “al di qua” di qualsiasi interpretazione “militante” (e questo è pur sempre un merito che riconosco a questo mio amico), qualcosa dentro mi ha spinto a protestare. “Non mi ardeva forse il cuore” tutte le volte che ho visto “Pulp Fiction”? Da dove viene il divertimento, l’esplosione di immaginazione, di colori, di bellezza e terrore che mi inonda alla visione di questo spettacolo? Davvero sotto sotto c’è solo claustrofobia e disperazione? C’è solo la “necessità di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro agio”? La mia risposta istintiva è no; non solo. Perché, come già in quel dialogo si nota, il punto fondamentale è la stessa “ottima domanda”. Certo che non c’è una risposta (non possiamo non dirci postmoderni), ma quello che interessa a Tarantino sono le domande, e non si rassegna alla necessità di raccontarle; anche le più insignificanti. Il problema è sempre quello: come scegliere tra le diverse interpretazioni a cui la domanda si presta.
Cosa ci “convince” di un interpretazione? Domanda aperta. Bisogna intanto sottolineare che, se non si è già capito, questa è una impressione personale del film, appunto una interpretazione, una risonanza interna poi sviluppata e ripensata, che nasce da un sentire interiore, particolare, di chi scrive, con nessuna pretesa di pura obiettività. Con quanto scritto non ci si vuole “appropriare” di Tarantino, che si potrebbe presentare ad esempio come un appassionato lettore di Flannery O’connor, scrittrice profondamente cattolica proprio nel suo stile grottesco e crudo, per tirare acqua al mio mulino, ma anche come il regista del tutto profano di “Gringhouse. A prova di morte”, ma appunto fare risuonare la sua opera con la mia sensibilità, e spero nello stesso modo con quella di chi legge. In realtà le interpretazioni legittime sono molte, citando Agostino:
Quest’ottica delle “differenti interpretazioni” verrà trattata più in là, e questo articolo risulterà dunque anche un “meta-articolo”, riguardante non solo il suo contenuto, ma anche la forma nella quale è scritto, il modo in cui ci si accosta ad un opera, la si interpreta. Sofisticherie a parte, la tesi che si vuole sviluppare è la seguente: Tarantino è un genio della cultura europea postmoderna, perché in molte sue opere, ed in questa in particolare, è potentemente “evocativo” e addirittura “spirituale”. Un mistico.
Formalmente il suo linguaggio è fatto di citazioni e di montaggio. Prese isolatamente le prime sono semplici immagini, come copertine di libri giustapposte le une vicine alle altre (ma già il loro senso metaforico, di “figure”, intride la storia raccontata di significati simbolici. Sul simbolismo torneremo). Il secondo elemento, il montaggio, anima il film e lo mette in moto, o meglio in circolo.
Il film infatti si apre e si chiude nel diner, è chiuso in una sola scena, conclude tutte le storie che comincia ritornando al punto di partenza. Nel costruire questo collage di cultura pulp, “containing lurid subject matter”, insignificante per definizione, Tarantino vaga dunque apparentemente in un cerchio senza uscita, ci fa perdere in un non-senso; e da questo si potrebbe arrivare alla conclusione nichilistica di cui sopra, e a vedere in “Pulp Fiction” il manifesto del postmoderno.
Ma ciò che egli disegna non è un cerchio o un punto, né può essere ovviamente una retta progressiva, il postmoderno ovviamente c’è, è di sfondo, di ambiente, intride il tutto, questo lo concedo al mio amico. Ma il Tarantino ex-impiegato di un videonoleggio non ha posizioni così totalizzanti, disincarnate e in fondo così intellettuali: quella che disegna è una spirale. Egli danza, gira intorno, in ogni scena torna all’inizio di un altra, dissolvenza e via un altra svolta; in ogni dialogo divergenti interpretazioni aporetiche si incartano, si aggrovigliano, potrebbero involversi, ma in realtà tutto “diverge” da un qualsiasi centro ed “e-versivamente” esplode il senso, ogni personaggio ha uno scopo diverso che lo porta a scontrarsi con gli altri, in queste collisioni imprevedibili la nostra guida (Tarantino appunto) ci lascia indietro col fiatone, fa accadere l’impensato, (il “miracolo” di cui tratteremo tra poco), fa porre domande (a centinaia nel film), fa tornare indietro (proprio cronologicamente) a rivedere le cose, a reinterpretare i sensi, infine a ridare interpretazioni di ciò che i personaggi hanno detto e delle stesse scene che lo spettatore ha visto. È un film autodecostruttivo. Aperto ad una possibilità esplosiva di sensi.
1. Il miracolo
Grande colpo di scena del film è il “miracolo” che avviene verso la fine della seconda ora del film, ma in realtà è in ordine cronologico nella prima scena. È uno snodo importante. Copio uno schema da Wikipedia per facilitare la comprensione:
Siamo all’inizio dell’ultima parte del film (prima del punto 5 nell’intreccio), ma in realtà è la fine della scena 1 nella fabula. Dopo che Jules e Vincent hanno crivellato di colpi le loro vittime, un sopravvissuto al loro sadico massacro tenta di ucciderli svuotando sui due gangster il caricatore di una grossissima sei colpi. I due restano illesi e lo fanno fuori subito dopo.
Continua nella seconda pagina…
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