Pulp Fiction, e il tocco di Dio!
Come dunque ti furono aperti gli occhi? (Gv 9, 10)

E subito a riequilibrare le cose, a ribadire che siamo nel 1990, che forse è tutta una coincidenza, interviene quello che chiamerei l’“anti-miracolo”: un proiettile parte dalla pistola di Vincent mentre parla con Marvin, l’ostaggio innocente seduto nel sedile posteriore della macchina, e gli fa saltare la testa.
Vincent parla di fortuna e di probabilità, Jules “apre gli occhi” e non è “cieco”. L’aspetto parodistico dei due gangster impegnati in disquisizioni teologiche non elimina il senso di esse, il loro spessore. L’evento stesso (il “miracolo”), per come è inserito nell’intreccio, rende possibile una soluzione del film, il finale, di cui parleremo dopo. Dà senso inoltre anche l’altra storia, quella di Butch, pugile il cui nome non ha significato, eroe vuoto, ma “efficace”, pronto ad uccidere. Egli, diremmo con Vincent, “per caso”, si trova ad incontrare per strada il boss Marcellus Wallace, che lo vuole morto a costo di inseguirlo in Indocina. Infatti Butch è dovuto tornare indietro a prendere l’orologio di suo padre, dimenticato dalla ragazza.
Ancora le interpretazioni divergono, creano malintesi. L’importanza di quell’orologio per me è motivo di pericolo e instabilità. Tuttavia questo evento (dell’“essersi dimenticati”) causerà paradossalmente la remissione del debito verso il boss; oltre che la morte di Vincent stesso (quasi una vendetta del fato sul suo servo Vincent). Butch infatti, tornato a prendere l’orologio, trova Vincent a casa sua e lo uccide. I due si erano già visti nel bar, dove Butch si era accordato con Marcellus Wallace per il match che avrebbe dovuto perdere, si erano scrutati e si erano detti:
Nessun amico in “Pulp Fiction”. Nessuna compassione. Ma nemmeno nessuna giustificazione o compiacimento. La violenza sta lì, sicuramente fa ridere; ma perché “strana”, “divertente” nel senso di destabilizzante, non logica. Nessuna giustizia nella morte di Vincent, ucciso mentre esce dal bagno. Egli fatalmente paga il suo essere “nemico”, la sua stessa ostilità, Butch lo ucciderà con la sua stessa arma (con il mitra). Il fato circolare lo inghiotte. Resta sullo schermo (le scene dopo sono anteriori nella fabula), ma per il pubblico è un fantasma e dopo, da fantasma, parlerà a Jules, negando qualsiasi senso, qualsiasi cambiamento, qualsiasi conversione. Vincet ha ballato “You never can tell” con la morte, ne è attratto, le dà un bacio quando si allontana, ma ne ha paura, e si accontenta di “rianimarla” comicamente con una dose di morfina. Vincent è un impotente scettico. Jules è un mistico.
2. Interpretazioni
Arriviamo alla fine. Cioè all’inizio: la scena del diner.
Il tocco di Dio. Questo è il punto di arrivo del film; ed anche il punto di partenza. Ma questa esperienza non esaurisce il film, non “dà un messaggio”, non “impacchetta” e “chiude” i film, bensì lo apre, lo fa esplodere, essendo al centro della fabula. Rende possibili tutte le vicende collaterali, tutte le sparatorie, i trip, le danze. Perché alla base di esse c’è la domanda: “cosa sento dentro?”: Quello che ha significato, è che io ho sentito il tocco di Dio!

Jules punta la pistola su Ringo…
Jules è l’unico che ripete tre volte una battuta nel film, il suo famoso monologo da Ezechiele 25,17 (citazione fittizia). Questo monologo chiude la scena 2 e riapre la scena 5 dell’intreccio (vedi schema sopra), e si sente per una terza volta nel diner. Egli qui lo reinterpreta, addirittura ne dà tre interpretazioni. Sta provando a uscire, a rompere la gabbia del non-senso:
Conclusione

La bellissima Uma Thurman interpreta Mia Wallace, la pupa del boss
Così si chiude il film. Avrei potuto semplicemente trascrivere questo monologo e tutto sarebbe stato detto. La prospettiva è cambiata, e il fantasma-Vincent con capisce e prima ha detto che “per principio” sparerebbe a Ringo, che invece Jules vuole riscattare. Vi è una conversione. Una conversione che riguarda l’intero film.
Proprio a proposito delle interpretazioni, si potrebbe ancora parlare per pagine e pagine sul simbolismo del film, sui riferimenti sottesi, e “nascosti”. Per esempio la moto sulla quale scappa Butch con la ragazza ha scritto sul lato “Grace”: è semplicemente il caso ad averlo aiutato o le “coincidenze” sono da chiamare “grazia”? Anche sulla famosa valigetta si è detto molto. Tarantino stesso ha stroncato queste discettazioni dichiarando la natura meramente “cinematografica” dell’espediente della valigetta: essa è un “McGuffin”. Il McGuffin, termine creato da Alfred Hitchcock, non è altro che un oggetto che ha un’importanza cruciale per i personaggi del film ma che non possiede un vero significato per lo spettatore. Si potrebbe anche parlare di Mia: qui si è suggerito che possa rappresentare la morte, il caso, la fatalità, l’avventura, ma in realtà tutto questo non interessa a chi scrive, perché come per Jules: quello che ha significato, è che io ho sentito il tocco di Dio!
Quello che ha significato è che “Pulp Fiction” mi ha divertito. Questo è il succo della questione. Il divertimento, quello vero e autentico, è appunto “di-vertente”, dunque “e-versivo”. Spinge a dire: “Questa la continuiamo.” È una spirale che si apre e che ci mette in moto, ci turba, ci solletica, ci carica, ci spinge fuori. Attraverso un (postmoderno quanto si vuole) girare su noi stessi, ci fa però collidere con l’“altro”, e ci lancia via, per la forza centrifuga, verso altri sensi, verso un senso che non si comprende, ma si vive profondamente.
Commenti da facebook