Cos’è che distingue un uomo da uno schiavo? Denaro? Potere? No. Un uomo sceglie, uno schiavo obbedisce.

— Andrew Ryan

Pulp Fiction, e il tocco di Dio!

Come dunque ti furono aperti gli occhi? (Gv 9, 10)

Pulp Fiction, splatter nigger

E subito a riequilibrare le cose, a ribadire che siamo nel 1990, che forse è tutta una coincidenza, interviene quello che chiamerei l’“anti-miracolo”: un proiettile parte dalla pistola di Vincent mentre parla con Marvin, l’ostaggio innocente seduto nel sedile posteriore della macchina, e gli fa saltare la testa.

Vincent: “Porca puttana!”
Jules: “Che cazzo è successo, si può sapere? Ah, che schifo!”
Vincent: “Ho preso in piena faccia Marvin!”
Jules: “Ma mi dici perché lo hai fatto?”
Vincent: “Ma non volevo farlo! È stato un incidente.”
Jules: “Senti, bello, ne ho viste di stronzate nella mia vita, ma questa…”
Vincent: “Datti una calmata! È stato un incidente, probabilmente. Probabilmente hai preso una buca, ecco.”
Jules: “La macchina non ha preso nessuna maledetta buca!”
Vincent: “Ehi, senti, basta, non volevo, eh?, non volevo sparare a questo figlio di puttana, è partito un colpo, ecco.”
Jules: “Ma guarda che casino hai combinato! Ci troviamo in una strada in città e in pieno giorno!”
Vincent: “Non posso crederci…”
Jules: “Ci puoi credere, figlio di puttana! Dobbiamo togliere la macchina dalla strada: gli sbirri tendono a notare cose tipo guidare una macchina inzuppata di sangue!”

Vincent parla di fortuna e di probabilità, Jules “apre gli occhi” e non è “cieco”. L’aspetto parodistico dei due gangster impegnati in disquisizioni teologiche non elimina il senso di esse, il loro spessore. L’evento stesso (il “miracolo”), per come è inserito nell’intreccio, rende possibile una soluzione del film, il finale, di cui parleremo dopo. Dà senso inoltre anche l’altra storia, quella di Butch, pugile il cui nome non ha significato, eroe vuoto, ma “efficace”, pronto ad uccidere. Egli, diremmo con Vincent, “per caso”, si trova ad incontrare per strada il boss Marcellus Wallace, che lo vuole morto a costo di inseguirlo in Indocina. Infatti Butch è dovuto tornare indietro a prendere l’orologio di suo padre, dimenticato dalla ragazza.

Butch: “Non è colpa tua. Se l’hai lasciato nell’appartamento… Se l’hai lasciato nell’appartamento, non è colpa tua. Dovevi prendere un sacco di cose. Ti avevo raccomandato di portarlo, ma non… non ti avevo chiarito importanza di quell’orologio per me. Se mi fregava solamente di quello, dovevo dirtelo. Tu non vedi nelle sfere, giusto??”

Ancora le interpretazioni divergono, creano malintesi. L’importanza di quell’orologio per me è motivo di pericolo e instabilità. Tuttavia questo evento (dell’“essersi dimenticati”) causerà paradossalmente la remissione del debito verso il boss; oltre che la morte di Vincent stesso (quasi una vendetta del fato sul suo servo Vincent). Butch infatti, tornato a prendere l’orologio, trova Vincent a casa sua e lo uccide. I due si erano già visti nel bar, dove Butch si era accordato con Marcellus Wallace per il match che avrebbe dovuto perdere, si erano scrutati e si erano detti:
Pulp Fiction, dialogo tra Butch e VincentNessun amico in “Pulp Fiction”. Nessuna compassione. Ma nemmeno nessuna giustificazione o compiacimento. La violenza sta lì, sicuramente fa ridere; ma perché “strana”, “divertente” nel senso di destabilizzante, non logica. Nessuna giustizia nella morte di Vincent, ucciso mentre esce dal bagno. Egli fatalmente paga il suo essere “nemico”, la sua stessa ostilità, Butch lo ucciderà con la sua stessa arma (con il mitra). Il fato circolare lo inghiotte. Resta sullo schermo (le scene dopo sono anteriori nella fabula), ma per il pubblico è un fantasma e dopo, da fantasma, parlerà a Jules, negando qualsiasi senso, qualsiasi cambiamento, qualsiasi conversione. Vincet ha ballato “You never can tell” con la morte, ne è attratto, le dà un bacio quando si allontana, ma ne ha paura, e si accontenta di “rianimarla” comicamente con una dose di morfina. Vincent è un impotente scettico. Jules è un mistico.

2. Interpretazioni

Arriviamo alla fine. Cioè all’inizio: la scena del diner.

Jules: “Sì, stavo qui a pensare.”

Vincent: “A cosa?”
Jules: “Al miracolo a cui abbiamo assistito.”
Vincent: “Al miracolo a cui tu hai assistito. Io ho assistito a un avvenimento strano.”
Jules: “Che è un miracolo, Vincent?”
Vincent: “Un atto di Dio!”
Jules: “E che è un atto di Dio?”
Vincent: “Quando Dio rende possibile l’impossibile. Ma stamattina non era uno di questi casi.”
Jules: “Ah, Vincent, non vedi che queste stronzate non contano? Perché giudichi la cosa in modo sbagliato. Ammettiamo che Dio abbia fermato quei proiettili, o trasformato la Coca in Pepsi, o trovato le chiavi della mia macchina. Non si giudicano cose del genere sulla base dell’utilità. Ora, se questo fatto che ci è capitato sia stato o no, secondo tutte le regole, un miracolo, è insignificante. Ma quello che ha significato, è che io ho sentito il tocco di Dio! Dio c’era coinvolto.
Vincent: “Per quale motivo?”
Jules: “È questo che mi fotte il cervello. Non lo so, ma non posso far finta di niente.”
Vincent: “Dici sul serio? Pensi veramente di mollare?”
Jules: “Questa vita?”
Vincent: “Sì.”
Jules: “Certamente. […] Ci sono vari tipi di miracoli, Vincent.”
Vincent: “Non parlarmi così, cazzo. Non te lo permetto.”
Jules: “Se le mie risposte ti spaventano, Vincent, allora lascia stare le domande che atterriscono. […]”
Vincent: “Ora devo andare al cesso. Voglio chiederti una cosa: quando hai preso la decisione? Mentre stavi seduto a mangiare la focaccina?”
Jules: “Sì. Stavo seduto a mangiarmi la focaccina e a bermi il caffè e a ripassare l’accaduto nella mia mente, quando ho avuto quello che gli alcolisti definiscono “il momento di lucidità“.”
Vincent: “Cazzo! Questa la continuiamo.”

Il tocco di Dio. Questo è il punto di arrivo del film; ed anche il punto di partenza. Ma questa esperienza non esaurisce il film, non “dà un messaggio”, non “impacchetta” e “chiude” i film, bensì lo apre, lo fa esplodere, essendo al centro della fabula. Rende possibili tutte le vicende collaterali, tutte le sparatorie, i trip, le danze. Perché alla base di esse c’è la domanda: “cosa sento dentro?”: Quello che ha significato, è che io ho sentito il tocco di Dio!

Pulp Fiction, Jules (climax)

Jules punta la pistola su Ringo…

Jules è l’unico che ripete tre volte una battuta nel film, il suo famoso monologo da Ezechiele 25,17 (citazione fittizia). Questo monologo chiude la scena 2 e riapre la scena 5 dell’intreccio (vedi schema sopra), e si sente per una terza volta nel diner. Egli qui lo reinterpreta, addirittura ne dà tre interpretazioni. Sta provando a uscire, a rompere la gabbia del non-senso:

Jules: “[…] Non glieli sto regalando, Vincent. Compro qualcosa con i miei soldi. Vuoi sapere che cosa sto comprando, Ringo?”

Ringo: “Cosa?”
Jules: “La tua vita. Ti sto dando dei soldi perché non mi va di farti saltare il culo. Tu la leggi la Bibbia?”
Ringo: “No. Di regola no.”
Jules: “Beh, c’è un passo che conosco a memoria. Ezechiele 25, 17. “Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà su di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te”. Ora, sono anni che dico questa cazzata. E se la sentivi, significava che eri fatto. Non mi sono mai chiesto cosa volesse dire. Pensavo che fosse una stronzata da dire a sangue freddo a un figlio di puttana prima di sparargli. Ma stamattina ho visto una cosa che mi ha fatto riflettere. Vedi, adesso penso: magari vuol dire che tu sei l’uomo malvagio e io sono l’uomo timorato. E il signor Nove Millimetri, qui, lui è il pastore che protegge il mio timorato sedere nella valle delle tenebre. O può voler dire che tu sei l’uomo timorato, e io sono il pastore. Ed è il mondo ad essere malvagio ed egoista, forse. Questo mi piacerebbe, ma questa cosa non è la verità. La verità è che tu sei il debole e io sono la tirannia degli uomini malvagi. Ma ci sto provando, Ringo, ci sto provando, con grande fatica, a diventare il pastore. Vattene.”
Vincent: “Secondo me ora è meglio andarsene.”
Jules: “Sì, mi pare una buona idea.”

Conclusione

Pulp Fiction, Mia Wallace

La bellissima Uma Thurman interpreta Mia Wallace, la pupa del boss

Così si chiude il film. Avrei potuto semplicemente trascrivere questo monologo e tutto sarebbe stato detto. La prospettiva è cambiata, e il fantasma-Vincent con capisce e prima ha detto che “per  principio” sparerebbe a Ringo, che invece Jules vuole riscattare. Vi è una conversione. Una conversione che riguarda l’intero film.

Proprio a proposito delle interpretazioni, si potrebbe ancora parlare per pagine e pagine sul simbolismo del film, sui riferimenti sottesi, e “nascosti”. Per esempio la moto sulla quale scappa Butch con la ragazza ha scritto sul lato “Grace”: è semplicemente il caso ad averlo aiutato o le “coincidenze” sono da chiamare “grazia”? Anche sulla famosa valigetta si è detto molto. Tarantino stesso ha stroncato queste discettazioni dichiarando la natura meramente “cinematografica” dell’espediente della valigetta: essa è un “McGuffin”. Il McGuffin, termine creato da Alfred Hitchcock, non è altro che un oggetto che ha un’importanza cruciale per i personaggi del film ma che non possiede un vero significato per lo spettatore. Si potrebbe anche parlare di Mia: qui si è suggerito che possa rappresentare la morte, il caso, la fatalità, l’avventura, ma in realtà tutto questo non interessa a chi scrive, perché come per Jules: quello che ha significato, è che io ho sentito il tocco di Dio!
Quello che ha significato è che “Pulp Fiction” mi ha divertito. Questo è il succo della questione. Il divertimento, quello vero e autentico, è appunto “di-vertente”, dunque “e-versivo”. Spinge a dire: “Questa la continuiamo.” È una spirale che si apre e che ci mette in moto, ci turba, ci solletica, ci carica, ci spinge fuori. Attraverso un (postmoderno quanto si vuole) girare su noi stessi, ci fa però collidere con l’“altro”, e ci lancia via, per la forza centrifuga, verso altri sensi, verso un senso che non si comprende, ma si vive profondamente.

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Author: Dante Monda

Cultura cattolica: nasco in una famiglia cattolica, numerosissima e unita. Pur essendo figlio unico ho sempre tenuto stretti contatti con i miei numerosi cugini e zii, con i quali non mancano dispute teologiche. Luoghi della mia formazione cattolica sono state le feste e le riunioni di famiglia, al di là del catechismo e delle attività in parrocchia (che frequento più da outsider, lo ammetto). Un cattolicesimo tramandato, conosciuto ancora prima di averlo imparato, eppure mai “scontato”, mai noioso. Se il Cristianesimo per me non è stato una scoperta, è stata certamente, citando Chesterton, una “rivoluzione eterna”. Cultura nerd: Fin da bambino mi ha sempre attratto il retrò. I vecchi soldatini di mio padre e i suoi vecchi fumetti (vecchi anche per lui!) della Marvel (anni '60) e di Flash Gordon (anni '30!) mi hanno sempre affascinato. A queste manie si affiancava la lettura dei romanzi di Lewis e Tolkien (anche questi trasmessimi da mio padre). Intanto crescevo a pane e action movies: Die Hard, Arma Letale, Ronin, 007, per citarne alcuni, esplorando inoltre famelicamente i film “classici” americani della New Hollywood (Lucas, Spielberg, Coppola, Scorsese...) e delle generazioni successive (Tarantino, i Cohen, P. T. e Wes Anderson...). Se dovessi trovare un tema ricorrente nella mia formazione parlerei della figura dell'eroe, di Enea/Flash Gordon/Capitan America/Bruce Willis/Luke Skywalker, del “buono”: l'ho trovata sempre emozionante perché pura, primitiva, coraggiosa, e, quando resta semplice e non retorica, profondamente libera.

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