St. Vincent – Recensione
Un’esegesi laica
Ci viene proposto di affrontare questo film sulla nostra pagina. Ovviamente tutti sgomitano per poterlo fare ma, grazie ad un mix di doti diplomatiche e savon faire (o come diamine si scrive) imparati guardando per quattordici volte “Ironclad“, vinco io. Che poi, era anche uno dei tanti film che mi ritrovavo nella pila de “da guardare”, tra “Captain Phillips – Attacco in mare aperto” e “Lucy“. Non è una pila tanto grande per fortuna, è solo leggermente più alta di me.
Comunque, bando alle ciance. Sia mai che noi Cattonerd non rispondiamo alle richieste dei nostri affezionati lettori! Mi sono studiato il film, “St. Vincent“, e sono pronto a sviscerarlo “esegeticamente”, ringraziando chi che ce l’ha fatto scoprire.
L’easy-gesiLa facile interpretazione dell'opera. si gusta meglio se l’avete già visto. Nel caso non l’abbiate fatto, non ci saranno spoiler rovina film, quindi potete anche leggervela, e rileggervela dopo averlo visto.
Introduzione a “St, Vincent”

La locandina del film
Qualche giorno fa, la mia migliore amica mi esponeva questa tesi: già dai titoli di coda puoi capire tutto il film. Se non proprio tutto, sono convinto che i temi centrali balzino subito alla nostra attenzione. In particolare se si tratta di film dalla trama lineare, già vista, come quella di “St. Vincent“: il burbero che in realtà non è così burbero e che sarà capace di fare cose buone, l’archetipo di Paperon de’ Paperoni, che conosciamo già.
Quindi per questo motivo il film non ha nulla da dirci? Non sono d’accordo, sopratutto verso quelle recensioni che lo relegano ad un Murray-centrismo, sminuendo i personaggi. Certo, Bill ha un film costruito su misura, ma siamo onesti: oggigiorno funziona così, dai. Si costruiscono i film già pensando all’attore, piuttosto che lunghi e snervanti casting. Per quel che riguarda la struttura, visto che la conosciamo e l’apprezziamo, non penso debba essere stravolta in deliri iconoclastici; piuttosto si può renderla interessante, aggiungendo le novità, come abbellire una casa fatta di solide fondamenta.
Il film quindi non brilla per originalità, ma tutto lo staff s’impegna per renderlo interessante: dagli attori, bravissimi, alla regia e fotografia, senza dimenticare la colonna sonora. A vederlo, sotto questo punto di vista, si ha l’impressione che anche l’immancabile americanissimo ragazzo del caffè ci abbia creduto veramente. Non scadiamo nel banalizzato, non c’è la scena strappalacrime forzata, c’è tutto ma è ben dosato, non stona, capiamo che deve esserci e quindi lo accettiamo di buon grado.
La genesi laica di un santo

Vincent MacKenna… vabbè, il solito misantropo al Bill Murray, ma con delle chiavi di lettura più interessanti rispetto al solito
Cos’è un santo in una società secolarizzata? Forse c’è più di una risposta, ma St. Vincent ce ne offre una più interessante: il santo è colui che, nonostante tutto ciò che la vita s’impegni a distruggere, riesce ad andare avanti, ed a rendere migliore quella degli altri.
Vincent è un uomo che ne ha passate tante, che sembra poi incapace a dare. Ha indossato una corazza, che lo fa apparire cinico e distaccato; vive per espedienti, e indugia nei vizi, dal bere al gioco d’azzardo. Gli viene assegnato Oliver, un ragazzo gettato in una situazione più grande di lui. È un bravo ragazzo? Fino ad un certo punto: si capisce chiaramente che ha bisogno, per non “finire male”, di due cose fondamentali per ogni bambino: attenzione ed educazione.
Paradossalmente, fin dal primo pomeriggio da baby-sitter, Vincent comincia a dargli queste due cose. In una maniera che farebbe impallidire psicologi, pedagogisti e altre personalità piene di titoli, ma forse avulse dal mondo concreto, che pensano con la loro scienza di divenire “deus ex machina”. Il bullismo, tema che mi riguarda personalmente, si combatte con recite teatrali, sedute dallo psicologo della vittima e non prendere posizione degli insegnanti? Dal comprendere il bullo, da “evitare i problemi” perché altrimenti il padre del bulletto “va per avvocati”? Stronzate risponderebbe Vincent.

Melissa McCarthy, che amiamo tutti per il suo ruolo di Sookie ne “Gilmore Girls“, e la bella Naomi Watts che interpretò Ann Darrow: la protagonista di “King Kong” (2005)
Così il viaggio iniziatico di Oliver avviene insieme la presenza di personaggi a dir poco sgangherati, dalla madre Maggie alla prostituta Danka, fino al gatto di Vincent. Cosa si ritrovano in comune questi personaggi che sembrano agli antipodi? Sono vittime, di una vita che avevano programmato ben diversa. Meggie certamente non voleva divorziare, e trovarsi ad affidare al vicino dalla dubbia moralità il suo tesoro; Danka di certo quando è arrivata negli states sognava una carriera ben diversa dal divenire prostituta; Oliver non voleva ritrovarsi in una guerra familiare, e in quella scuola dominata dai bulli.
Ma chi è stato colpito più duramente, è proprio Vincent. Odioso, arcigno, avvinazzato. Una persona può nascere così? Qualcuno può veramente scegliere liberamente di smettere di vivere e lasciarsi vivere? La risposta è no, lo vediamo quando il protagonista si aggrappa alle reminiscenza della vita passata, come lasciandosi a danze improvvisate, con una vecchia canzone di un juke box, vecchio quanto lui.
Forse gli altri personaggi hanno così paura di Vincent perché mostra loro cosa potrebbero diventare, nel momento in cui si lascerebbero andare. Lo capiamo alla riunione scolastica, dove ascoltiamo tra i singhiozzi la storia di Maggie. Il regista non ci nasconde niente: l’inferno è ad un passo, ed a volte possiamo finirci senza volerlo; le cose brutte capitano alle persone buone, e non c’è bisogno di un testo sacro per comprenderlo.
Una redenzione possibile?

Vincent ed Oviler
Tema finale, è la ricerca della redenzione; anche se non è voluta, perché può capitarci. Il regista sembra condurci per tutto il film con questa intenzione, mostrarci come necessariamente debba esserci, nonostante facciamo di tutto per evitarla, perché la necessitiamo intimamente e naturalmente. Attenzione: abbiamo qui una concezione totalmente altra rispetto a quella cristiana. La redenzione è lo stare bene, il non distruggersi e sopravvivere all’inferno-vita.
Come si può ottenere? Insieme. Nessuno dei protagonisti, per quanto sembri volerlo, può vivere da solo. Ha un bisogno sostanziale dell’altro, lo necessita per stare meglio e per far stare meglio, sono fondamentalmente collegate queste due azioni. Nel momento che qualcuno di loro si ritroverà da solo, verrà sopraffatto, perdendo la possibilità di redenzione.
Qualcuno però è speciale, più forte. Una quercia dalla corteccia dura può sembrare secca; ma finché la linfa scorre, con le sue fronde può proteggere le piante più piccole che crescono sotto di lei. Lo fa anche se non vuole, se pare così diversa e distante rispetto a quelli pù giovani. Le piantine però le saranno sempre grate, per ciò che sta facendo per loro, e sapranno dimostraglielo: piccoli atti devozionali per un santo.
Conclusione

Padre Geraghty: “Lui è Oliver, conducici nella preghiera mattutina…” Oliver: “Io… credo di essere ebreo.” Padre Geraghty: “Buono a sapersi.”
È arrivato il momento di concludere il nostro percorso. Come avete notato, se siete stati così gentili da seguire le mie recensioni, questa ha un tono di cesura netta rispetto alle altre, il mio scopo infatti non era consigliarvi o meno il film, analizzare la recitazione o la fotografia, ma far emergere il significato della storia.
Ho trovato interessante, e profondamente rispettoso, l’approccio del regista. Egli aveva alcune idee, e le ha confrontate con la concezzione cristiana di santità, la più diffusa al mondo. C’è la domanada fondamentale: si può essere santi indipendentemente dalla fede? La risposta del film è sì, perché è un cammino a cui siamo chiamati tutti. Non potremo sconfiggere l’inferno, c’è un lieto fine ma non così fiabesco, perché quel che possiamo fare è sopravviverci. Guardatelo, e sono sicuro condividerete questo punto di vista.
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