Cos’è che distingue un uomo da uno schiavo? Denaro? Potere? No. Un uomo sceglie, uno schiavo obbedisce.

— Andrew Ryan

“The Last Days”: il coraggio di vivere

…E di uscir fuori dal proprio vittimismo!

Gli attori, con i loro musoni e tratti somatici tipicamete spagnoli, si prestano bene al tema trattato…

Adoro i b-movie. Tra questi recentemente ho visto questo film spagnolo “The Last Days” (titolo originale: “Los Últimos Días”: Gli ultimi giorni). Ogni tanto si ha bisogno di vedere qualcosa di scontato tanto per rassicurarsi al caldo di un copione già visto senza imprevisti o colpi di scena.
Tra i miei film-sicurezza ci sono sicuramente i post-apocalittici. E credevo che questo fosse uno tra tanti, uno di quei film post-apocalittici che tu pensi abbiano sempre la stessa trama: l’umanità che deve ritrovare se stessa e quindi scegliere tra lo stato animalesco del “homo hominis lupus” e tra la riscoperta della civiltà e del senso più profondo del cuore dell’umanità. E invece no, è stata una sorpresa incredibile.
Premetto, un film magari di poco conto dal punto di vista artistico, non c’è l’ombra neanche di un effetto speciale o di una goccia di sangue, ma assolutamente innovativo nel tema trattato: L’amore per la tristezza, o per usare un termine più tecnico: accidia.

La trama (senza spoiler)

Le città post-apocalittiche hanno un fascino particolare… personalmente mi trasmettono pace e rilassatezza

Siamo nel 2013 e una misteriosa malattia impedisce all’intera umanità di uscire all’aria aperta, pena la morte istantanea, condannandola cosi a rimanere intrappolata all’interno di edifici. Il protagonista, Marc, deve riuscire a ritrovare la fidanzata Julia scomparsa nel nulla, ma ovviamente deve farlo senza mai avventurarsi negli spazi aperti.

Nelle prime scene vediamo la tipica civiltà moderna annoiata di una vita che non sembra cominciare mai, una constante lotta per l’auto-conservazione, e aggiungerei un’incapacità di vivere coraggiosamente, che di certo non può soddisfare le attese di grandezza insite nell’animo umano. Mentre spesso ci capita semplicemente di accontentarci di una manciata di sicurezze che ci permettono la sopravvivenza. Un po’ di soldi, un po’ di affetto, e vediamo tutto come qualcosa che ci ruba il nostro tempo, i nostri spazi personali, i nostri soldi e le nostre energie senza niente in cambio.
Un vero e proprio terrore di spendere la propria vita in modo appassionato e di perdere le proprie sicurezze, che invece impediscono di rischiare con progetti di vita ambiziosi che potrebbero compiersi, ma del resto anche fallire. In questo modo finiamo per rinchiuderci volontariamente in una gabbia. E così, metaforicamente, la trama di questo film comincia con un’epidemia di agorafobiaFobia per gli spazi aperti. che rinchiude la civiltà in quattro mura. Un elemento innovativo veramente potente per questa categoria di film. Una malattia dello spirito che diventa una malattia reale, semplicemente non ci sono né virus letali che ti fanno risvegliare dopo la morte, né esplosioni atomiche con conseguenti mutazioni abominevoli.
Vi citerò un episodio biblico che mi è venuto in mente e che secondo me spiega bene quel che voglio dirvi:

“Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me.”

Perché il malato, pur sollecitato da Gesù in persona, preferisce restare li dove si trova, accampando delle scuse per non muovere un dito? Vittimismo? La ragione che lo inchioda nel suo lettuccio è la paura di uscire dalla propria “zona di confort“. Siamo cosi dipendenti dalle nostre presunte sicurezze a tal punto che cominciamo a coprirci di scuse e deleghiamo sempre all’esterno sia il bene che il male di quello che ci accade o non accade, crogiolandoci nel nostro male. E oltre tutto, cosi facendo, non ci rendiamo conto che non ci facciamo nemmeno aiutare.

Come alzarsi dal proprio lettuccio?

Questa morte della passione umana, questo terrore della vita spesa coraggiosamente non deve prevalere. La bellezza può salvare l’uomo. Ma deve intervenire qualcuno che ci dia una scossa, un sacrosanto calcio nel di dietro per sbloccarci. “Vindica te tibi” come diceva Seneca, ovvero, rivendica il tuo diritto su te stesso se l’hai perso, il diritto di essere un uomo veramente vivo. Riconquistati! O per usare le parole di Paolo di Tarso (Rm 8,15):

San Paolo di Tarso: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!»”

Nel film questa sana spinta verso la riconquista di se stessi arriva da un coprotagonista.

“Ascoltami bene devi fare come ti dico, devi smettere di lamentarti esci subito da quella porta e abbi il coraggio di attraversare quella strada, ce la farai, ti aspetta qualcuno dall’altra parte, non è finita per te, basta frignare, sarebbe stato molto peggio morire con un infarto da solo guardando la televisione…chi l’avrebbe detto un anno fa che ci sarebbe successo qualcosa di interessante!”

Ma per noi che siamo cristiani il sacrosanto calcio rotante nel sedere arriva direttamente dall’Onnipotente (no, non Chuck Norris XD), o per meglio dire, viene permesso per il nostro bene:

Gesù: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina.

E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare.

Per concludere, ti può letteralmente venire ad aiutare Gesù Cristo, ma bisogna sempre compiere un atto di volontà. Dio spiana la strada ma poi bisogna incamminarsi e “mettere un piede dopo l’altro” (cit “Il destino di un cavaliere” ). Questo film ci mostra anche quanto sia forte nell’uomo il desiderio di qualcosa di alto, di “altro”. Il primo passo è sempre il più faticoso, ma è l’inizio di una vita spesa coraggiosamente. E voi che ne pensate? Vi accontentate? Avete il coraggio di rischiare?

Non sempre è possibile raggiungere un obiettivo in modo convenzionale… occorre, alle volte, tentare strade alternative!

Commenti da facebook

Commenti

1 Commento

  1. E se fosse solo la metafora di quello che sta succedendo a tutti quanti (e non per colpa di Internet: è solo ottimo come pretesto per farlo più comodamente, ma potrebbe servire in cento altri modi)? Cioè una mezza-satira mezzo-seria sull’idea che “l’aria che tira” (una competizione esasperata e che ammette sempre più trucchi sporchi) ci costringa a spazi d’azione sempre più angusti? Non è un tema completamente inusuale, anzi, vista la piega che sta prendendo il nostro vivere, mi sembra sempre più frequentato.
    Di oppressioni e ipocriti scheletri nell’armadio si nutre la serie Bioshock(ma, mi par di capire, anche di meccanicismo, predestinazione o forse libero arbitrio iper-responsabilizzato, al punto da annullare ogni imponderabile pur senza concedere sicurezze nel momento di scelta: tutto incredibilmente WASP) e ci sono sempre città mirabolanti e audaci e prometeiche, ma anche tendenti all’isolazionismo, fra voluto e subìto (utile per un mondo di gioco gestibile ma anche per riflessioni in sincrono sugli USA e sull’unico punto che ebbero in contatto coi regimi che oggi -quasi sempre- detestano).
    Di vigore giovanile ed esplorazione “trasgressiva” campa Gurren Lagann (dove la situazione di Last Days sembra protrattasi per millenni, tanto che si sono ridotti a citta-tane, solo che un giovane…fa il giovane e non ci sta).
    Un’altra coppia di persone simpatiche, “comode” e cordiali ma decisamente provinciali, serenamente limitate e fan dei buchi nel terreno li conosciamo bene, e sono parecchio popolari qui, come il loro autore (:-p).
    Persino nell’ Attacco dei Giganti, pur facendo pessimismo e riflessione disturbante sulla bestialità si parte proprio dal muro invalicabile…che in fondo è quello di casa propria, in un certo senso il proprio pollaio sovraffollato, il proprio capannone industriale, ecc.; e via di domesticazione umana e polemica antiurbana/antimoderna, per giunta con costumi e ambientazioni che rimandano all’epoca d’oro di questo stile di vita: il primo Novecento
    mitteleuropeo (quello che si rimpiange ciclicamente senza ammetterlo e in cui “si stava tanto bene”, vedasi Kafka).
    Ma c’era anche “Abissi d’acciaio” (Asimov).

    E’ facile ed efficace fare la morale sul darsi da fare e sulla necessità di impegnarsi e, se è il caso, rischiare. Ma è più modesto (anche se meno elevato) riconoscerne il senso e la necessità (al netto di eccessi, anch’essi ampiamente d’attualità, specie fra i giappi e gli americani e-malinconici, quando non semplicemente rassegnati e aridi). Le persone hanno bisogno di una dimensione umana. Sia nella qualità che nella misura. E invece si trovano davanti, in tempi che nella Storia corrispondono a
    pochi istanti, a un ambiente esterno improvvisamente sconfinato, anonimo, ignoto e inadeguato alla propria felicità da un lato e dall’altra ad abitanti che, tanto l’ambiente quanto le idee e le abitudini, sono stati anch’essi trasformati in meno-che-umani (insensibili): in “robottini” (tema caro a tante distopie vintage, da Stepford Wives a Matsumoto) o in “sassi” (tema molto più vecchio e parecchio più religioso :-p). Cosa dovrebbe fare l’unico vero umano rimasto (mi pare ci siano anche diversi titoli simili a “l’unico vero umano rimasto”: le idee girano e si tirano l’un l’altra)? E’ una presa d’atto, è realismo, oltre che commovente (umana) affezione per il proprio habitat appena sparito.Si può anche reagire, ma si deve fare i conti colle proprie esigenze (anche immateriali) Perché uscire tutti carichi e pretendere di mettere i propri desideri e voglia di vivere sulla bilancia quando sull’altro piatto c’è “il mondo se ne frega”?(Altro tema frequentatissimo, come tutti, da Leopardi alle sottoculture punk/ribelli/dark/ecc. : anche quella è una comfort zone, per quanto amara e “virtuale”). Non è un’altra forma di suicidio, o meglio di irrilevanza?
    L’idea di provare a difendere quanto rimasto senza rischiare anche quello sarà pessimismo o limitazione del danno ma appare più sensata (Fallout anyone? Mad Max? Chrono Trigger? Non saranno temi centrali ma di accidia in quel genere di futuri ce ne ho sempre vista un pacco, probabilmente fin da Huxley, che ci teneva molto a) a farla notare e b) a specificare che ne erano entusiasti).
    D’altronde anche il tema opposto ha i suoi begli alfieri, di solito in racconti di marineria, o di esplorazione spaziale o viaggi nel tempo, ecc..
    Se stiamo attenti però da una parte c’è lo spazio gelido e immenso, avventuroso e tendenzialmente alieno, anche quello delle possibilità o del passato/futuro, ma dall’altra un perimetro organizzato, amato, attrezzato e corazzato (una nave, una stazione spaziale…una cabina telefonica londinese…).
    C’è bisogno anche di quello, anzi la tipica motivazione (non solo tolkieniana, proprio antropologica, da “monomito”) per la quest è non farselo mangiar via e/o riprendersi anche quello, insieme all’identità e a tutto ciò che ci è caro ma non va sotto chiave, come idee, speranze o persone.
    Il guaio è che, rispetto ai tempi di Re Artù o dell’Anello (e relativi vaghi corrispondenti storici) il Sauron di turno ha messo il turbo: “prima” lo vedevi muoversi metro per metro, conquistarsi consensi, fare preparativi. Oggi pare tutto più in “real time”, tipo meteorite. Non giudicate troppo male chi resta nella sua “fortezza”: a volte non è proprio paura, è onesto calcolo delle proprie capacità di fronte a massicci imprevisti.
    PS Scusatemi se gli ultimi interventi sono lunghissimi, quasi articoli a loro volta, è che sono trame belle e attuali, titoli di caratura, e si capisce anche senza approfondire: mi fanno riflettere, al pari della letteratura “ufficiale”. Un giorno saranno classici, studiati come rappresentativi d’epoca, al pari di Dickens o Svevo.

    Scrivi una risposta

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

diciassette − 2 =

Author: Anacleto

Share This Post On
Share This