Costantine: “Oh, io credo. Cristo Santo!”
Gabriele: “No. No, no, tu sai. C’è differenza.”

Fare il narratore di fumetti è una patologia?

L’intervento di Gipi e Davide Reviati nell’ultimo evento dell’ARF!

Come promesso, ho deciso di dedicare un articolo all’ultimo momento dell’ARFestival: “Talk: Il tempo necessario“. Ossia, quand’è che è chiusa una storia? Quanto tempo occorre della vita di un autore per poter realizzare un libro a fumetti che non è semplice intrattenimento, ma una parte importante di sé che si desidera raccontare? Quando veramente un’opera è conclusa? Queste non facili domande sono state poste a due fumettisti di successo quali Gipi e Davide Reviati, che di opere autobiografiche ne hanno realizzate non poche nel corso della loro carriera. Complimenti anche a Mauro Uzzeo che ha saputo intervistarli con ironia, rimanendo fermo sull’argomento posto ai due autori.

L’intervista a Gipi e Reviati

Naturalmente, per questioni di spazio, ho tagliato le parti dell’intervista dove Gipi e Reviati si fermano a più riprese per prendersi in giro l’uno con l’altro, o dove si estendono un po’ troppo alcuni concetti, perché altrimenti non sarebbe bastate sei pagine per scrivere questo articolo!
Mauro Uzzeo: “Gipi, quando ti è capitato di pensare che questo racconto, queste tavole, le ho realizzate nel tempo necessario?
Gipi: “Non lo so, io quando racconto le cose è il fluire della storia che mi interessa al di là della cura, della qualità grafica o che sia… Dunque per me il tempo necessario per fare un racconto è quello dove condenso quello che devo dire con il mezzo giusto e con la qualità sufficiente. E basta. Poi, in realtà, io non amo molto la velocità, non mi piace stare tanto su di un lavoro. Non godo mai a disegnare ad esempio, godo solo quando c’è il fluire della storia. Nel fumetto sto bene quando vedo che una sequenza prende forma e ha un ritmo.”
Davide Reviati: “Io sono all’opposto, me lo prendo anche troppo. Nel senso che ho bisogno che la storia che voglio raccontare mi marcisca proprio nelle mani, che ne senti proprio la puzza alla fine. Quindi sono talmente abitato a un tempo lento che me lo prendo tutto. Questo, ovviamente, ha degli intoppi… faccio molta fatica a lavorare quando mi impongono dei tempi.”

Un’immagine tratta dall’ultimo romanzo a fumetti di Davide Reviati: “Sputa tre volte

Mauro Uzzeo: “Entriamo nel dettaglio per chi non ti conosce personalmente: quanto tempo hai impiegato per fare il tuo ultimo libro?
Davide Reviati: “Eh, due annetti e mezzo, perché ho cominciato poi tardi. Quando dico che la storia mi deve “marcire nelle mani“, devo essere sul punto che la storia non la puoi più fare, perché ne hai già piene le…”

In pratica Reviati, con questo esempio un po’ paradossale, fa riflettere su di una cosa fondamentale: la storia deve essere già chiara nel pensiero del narratore, perché è difficile scrivere di qualcosa che ancora non si è delineato consciamente nella propria mente. Questo è un consiglio in realtà da non sottovalutare. Alcune dei più grandi flop del fumetto, soprattutto per i seriali, sono nati da idee partorite a metà. Non faccio esempi, dato che la lista sarebbe lunga, ma credo sia chiaro il concetto.

Mauro Uzzeo: “Altro problema: ti riconosci nel dramma di alcuni autori di dover scegliere cosa includere e cosa tagliare fuori da una storia?
Davide Reviati: “Sì, abbastanza. Questa cosa della scelta è uno dei problemi più grossi secondo me. Cioè, per il lavoro di un autore penso sia il problema principale, sei sempre di fronte a una scelta: un disegno o un altro, un’inquadratura lunga o un primo piano, una parola in una vignetta o una scena muta. È sempre una continua scelta. Questo è uno stato logorante, perché sai che non è detto che poi scegli la cosa giusta. Puoi lasciare fuori delle possibilità che sono più indovinate o funzionali. Si tratta di un tarlo che io mi porto dietro fino alla fine, non sono mai convinto… anzi, spesso ridisegnerei molti dei libri che ho fatto.”
Gipi: “Io no, perché non ho mai voglia di lavorare. Nel senso che non rifaccio mai le vignette, perché non ho proprio voglia. Però diciamo che prima de “La terra dei figli” ho riguardato i libri precedenti e non ne ero contento. Quindi, probabilmente, non li avrei rifatti, ma non ero così soddisfatto di averlo fatti in quel modo.”
Davide Reviati: “Credo, immagino, che per affrontare questa cosa della scelta sia necessario acquistare delle sicurezze, abbastanza importanti. E questa è una cosa che io sento di non aver mai raggiunto. Forse Gipi ha una formula al riguardo…”

Una tavola tratta da “Appunti di una storia di guerra”, la prima grande opera di successo di Gipi

Gipi: “No, ma che formula! Io finisco tutti i libri che ho iniziato in lacrime. Cioè, la prima volta è stato con “Appunti di una storia di guerra”, che l’ho finito e l’ho riletto… e mi sono messo a piangere appoggiato a un termosifone, perché ho detto: «che è sta roba?!» Non ci vedevo nulla. Poi in realtà quel libro lì mi ha cambiato la vita, per quanto è andato bene. Ma tutto quello è sempre stato così: tutte le volte sei nella fase che pensi che hai fatto una schifezza! Ma un’altra voce dentro di me dice no, perché questa volta è quella vera in cui hai fatto una schifezza. E mi è successo sempre, con tutti i lavori. Quando ho finito “La terra dei figli” è stato il più difficile in assoluto, perché avevo cambiato modo di raccontare e il finale stesso del libro era vuoto: non c’erano dialoghi, non c’era niente. Avrebbe funzionato solo se durante le pagine avessi costruito una tensione emotiva. Quando ho riletto il libro, no! «Non c’è nulla, questo finale sarà un niente, una buca.» Ma poi ho scoperto che quando io rileggo i miei libri non vedo i disegni, cioè io leggo solo le parole. Quindi “La terra dei figli”, che ci avevo messo più o meno due anni a farlo, l’ho letto tipo in ottanta secondi. E anche quella cosa lì è strana, perché il mestiere del fumettista secondo me è una patologia, perché il rapporto tra quantità di tempo che ci spendi, annichilimento sociale-psicologico e guadagno o ritorno che hai alla fine è completamente squilibrato se ci pensi. Quindi è strano quando finisci una cosa e hai quella brutta sensazione lì, perché ti sembra veramente di avere buttato via un pezzo di esistenza.

La questione sollevata da Gipi è un dilemma per la maggior parte dei grandi autori di fumetti, che davvero temono di sprecare intere porzioni della loro esistenza senza avere mai la certezza se quella sia stata la scelta giusta per la loro vita. Addirittura il grande Tiziano Sclavi, sceneggiatore e padre di Dylan Dog, ha sollevato il medesimo problema. «Ne vale la pena?» La risposta sta in ciò che si racconta.

Gipi: “Tra l’altro io ho fatto le prime trenta pagine carico di entusiasmo. Poi mi sono fermato, sempre tornando al tempo necessario, per un anno e mezzo. Ogni tanto andavo a rivedere queste cose, e non mi veniva di continuare. C’è voluto un anno e mezzo perché io capissi in realtà di cosa parlava quella storia lì. Quando ho capito di cosa parlava davvero, cioè non di trama o altro, ma del senso profondo della storia, ho riattaccato a disegnare e in sette mesi ho chiuso le altre pagine. Però la sensazione è sempre quella di aver fatto una cosa tra l’inutile e il disastroso.”
Mauro Uzzeo: “Molti fumettisti mandano le tavole ad amici per avere dei feedback, come per dire: «che ne pensi?»”
Gipi: “Questa cosa di chiedere agli amici è assolutamente inutile, perché se uno è un tuo amico ti deve dire che quello che fai è bello. Cioè, non ti deve dire che è una cagata, perché dovrebbe farlo se ti vuole bene? Quindi anche se gli amici ti dicono che è una figata, te pensi soltanto: «come è carino il mio mio amico, mi vuole bene.» Non pensi mai che è vero, perché la verità che almeno per me c’è una solitudine assoluta in quel lavoro lì. […] In realtà c’è solo il tuo giudizio che vale. […] Io penso che il mestiere di raccontare storie è una continua richiesta di cercare amore verso degli sconosciuti. E quindi è una patologia. Perché nessuna persona con un equilibrio interiore – degno di questo nome – ha bisogno di avere amore da persone che non conosce.”
Mauro Uzzeo: “Tu Davide invece su Social stai messo bene?
Davide Reviati: “Io non frequento i Social. Io ho amici molto più cattivi, nel senso che a me mi dicono quando il mio lavoro fa cagare. È dura, molta dura. […] Io devo stare dentro la storia. Credo che il lavoro nasca, come ha detto Gipi, da una patologia. Cioè, quella di sentirsi sempre estraneo in tutte le situazioni. È una cosa che ho fin da piccolo: giocavo a calcio, ma non mi sentivo parte del gruppo. È così in tutte le situazioni. Io faccio fatica a sentirmi un professionista dei fumetti, faccio molta fatica… credo che molto nasca da questo: chiamiamola “dissociazione”. […] Avere attenzioni per l’altro e mai a riceverla tu. Questo in me ha generato quasi una sorta di continua ricerca dei rimandi altrui.

Ho tagliato un po’ l’ultimo intervento di Reviati, che entra nello specifico dei suoi traumi personali… Ma il succo del discorso è questo: molti autori scrivono per sublimare un trauma, che quasi sempre è il sentirsi rifiutati dall’altro. C’è chi lo fa in modo meno narcisistico, sviluppando un’insicurezza cronica, chi diventa più un arrivistaSmodata ricerca del successo, mettendo al secondo posto altre cose più importanti. o, addirittura, chi accresce un desiderio di rivalsa nei confronti di un mondo che non l’ha fatto sentire accettato. Questo per chi frequenta il mondo del fumetto è pressoché evidente, dietro l’egocentrismo di molti autori c’è sempre una storia più complessa e tutt’altro che idillica. L’importante è trasformare questo limite o trauma in un modo per esprimere qualcosa di più profondo, da sfruttare in modo artistico e non vanesio. Il problema è che non sempre questo accade…

Mauro Uzzeo: “Entrambi nelle vostre opere avete fotografato il tempo di un’adolescenza che da lettore io posso percepire come vostra o come inventata, ma il risultato è che la vivo anch’io. Come vi relazionate quando riguardate quel periodo della vostra vita adolescenziale e come lo trasformate?
Gipi: “Ma io invece ho un’età in cui non me lo ricordo più, sinceramente. Mi ricordo sempre meno, in più l’aver raccontato tanto della mia gioventù e adolescenza fa sì che abbia dei ricordi completamente mutati. Cioè, io ho cambiato le cose per poter raccontare le storie. Secondo me se fai autobiografia, come ho fatto io più o meno velatamente per tanti libri, devi necessariamente cambiare la realtà, perché la realtà fa cagareNaturalmente, aggiungo io, questo è un po' soggettivo, ma per molti è vero... la vita non è il massimo!. Cioè, presa e messa lì non funziona, quindi hai sempre il bisogno di spingere e di cambiare gli eventi affinché sia avvincente per chi legge. Il problema è che poi questo miscuglio di ricordi reali e ricordi modificati ai fini del racconto è diventato una specie di pappa informe dove io non so più quali sono le cose vere e le cose finte. Inoltre io sono un raccontatore patologico… se passi una serata con me io di sicuro faccio un pippone su qualcosa successa, e di sicuro te la cambio per farla diventare divertente. […] Per quanto le tue motivazioni possano essere emotive, psicologice e profonde, dovute a traumi, ad altro o che… quando ti metti a un tavolo e decidi che gli affari tuoi andranno in case di altre persone, te stai a fare intrattenimento. Le persone le devi divertire, le devi commuovere, perché se no ti dovrebbero dare dei soldi? I soldi sono la cosa più bella del mondo, Cioè, per me i soldi sono l’unico metro sincero di valutazione dell’opera di qualcuno. Se io metto un disegno su Facebook ricevo 10.000 like, ma se i like costassero 10 centesimi l’uno di like ce ne avrei trenta. Questa è una cosa per i giovani autori che devono capire: tu chiedi, soprattutto in un periodo di crisi come questo, di mettersi una mano nel portafogli e togliersi dei soldi e darli a te. Io penso che per meritare ciò devi avere fatto un lavoro quanto meno serio. Sopratutto se sei uno di questi malati di mente che lavorano sul proprio lavoro rinchiusi in casa.”

Quello di Gipi può sembrare un discorso “venale”, in realtà è solo semplice pragmatismo. In un mondo del fumetto, soprattutto come quello europeo, dove ormai si tende a curare molto l’aspetto grafico ma di rado i contenuti, occorre davvero saper raccontare qualcosa di valido per emergere. Quando un’opera vende le ragioni principalmente sono tre: una grafica spaventosa (molti fumetti non vantano grandi sceneggiature, ma sono disegnati in modo straordinario!), un racconto che sia pregevole a livello contenutistico o un’affezione per il proprio fumettista preferito che si sviluppa solo dopo uno dei primi due casi citati in precedenza. Attualmente c’è un quarto elemento, quello del Social media, ma meriterebbe un discorso a parte.

Conclusione

Una striscia tratta da “La terra dei figli” di Gipi, che merita davvero di essere letta

In verità, l’intervista a Gipi e Reviati continua per altri venti minuti… ma nonostante i simpatici aneddoti riportati dai due autori, i concetti più importanti sono stati già espressi abbastanza.

Dunque, tirando le somme, un narratore di fumetti è un caso patologico? Beh, naturalmente non sempre, ma c’è da dire che almeno in questo mestiere, dove la vita sociale spesso va a farsi benedire, o viene quanto meno ridotta all’osso, essere un caso patologico, lo so, è brutto dirlo… ma può aiutare! Vorrei fare esempi concreti sulle varie patologie o problematiche psicologiche di cui soffrono alcuni degli autori più famosi del momento, ma sarebbe poco carino. XD
Tornando al tema del nostro sito, la fede, Dio opera proprio nei nostri limiti. Questo vale anche per i non credenti, che Dio ama ugualmente. Non cercate di snaturarvi, ma accettatevi così come siete, guardatevi dentro come in uno specchio, senza paura, perché l’onnipotenza di Dio sta proprio nel trarre il bene dal male e nel farci scoprire la nostra vocazione nei fallimenti. Molti grandi scrittori della storia questo lo sapevano bene (Dante Alighieri, Victor Hugo, Lev Tolstoj, Dostoevskij, Jane Austen, Mary Shelley, Chesterton, Lewis, Tolkien… cito i miei preferiti!). Come nella “Vita nova” di Dante, si può addirittura trarre da un lutto o un amore impossibile quella forza per poter generare un capolavoro. Naturalmente, in teoria, per i credenti questo sarebbe più facile da capire… sublimare il dolore in vista della vita eterna, anche narrativamente parlando. Allora perché il mondo cristiano non produce quasi più niente di interessante? Beh, le ragioni sono sicuramente più di una… ma una delle possibili è perché diversamente dai non credenti molti cristiani credono di aver già la verità in tasca o danno quanto meno per scontate molte, troppo cose, uccidendo così la propria creatività. Purtroppo c’è poco da fare, piaccia o no, l’intrattenimento detta gran parte della cultura dominante. Come abbiamo già detto ne “La potenza di una bella storia. Ovvero della Bibbia“, una storia commovente o coinvolgente vale più di mille catechesi. Dunque se i cristiani non si occupano più di tutto questo diventano quel sale inutile a cui alludeva Gesù in Matteo 5, 13 :

Gesù: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.”

Commenti da facebook

Commenti

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

sedici + undici =

Author: Alex Pac-Man

Cultura cattolica: Affascinato dalle storie di Arda, ho cercato di capire perché Tolkien sostenesse che a essere immaginario è solo il tempo in cui sono ambientati i suoi racconti. Ho così iniziato un lungo cammino, che mi ha portato ad amare il Libro della Genesi e tutto ciò che riguarda la protologia, fino all'esperienza del percorso dei 10 Comandamenti di don Fabio Rosini. La fede cristiana è soprattutto un'esperienza di bellezza, ben lontana dall'ideologia e dall'emozionalità di chi la riduce ad un sterile atto di cieca convinzione. Cultura nerd: Le mie prime idealizzazioni furono plasmate dai capolavori di Shigeru Miyamoto, quali "A Link to the Past" e "Ocarina of Time", che, magari sarà azzardato dirlo, racchiudono in sé un po' tutta l'essenza del mito. Il mio essere un nerdone comincia dall'amore per la narrativa, per il fumetto e tutto ciò che porta alla storia delle storie.

Share This Post On
Share This