Sono le armi a causare tutti questi combattimenti o la vera causa si trova nel cuore umano?

— Lacus Clyne

L’eterna estate di Ano Hana: il segreto della narrativa giapponese

Le relazioni autentiche non finiscono mai? Per i giapponesi è così

La copertina di “E la chiamano estate”

Per una ragione che non vi spiego, mi sono ritrovato a dover leggere un fumetto ambientato e/o legato al periodo estivo. Così, guidato dai saggi consigli della mia fumettara di fiducia, ho comprato “E la chiamano estate” di Jillian Tamaki e Mariko Tamaki, autrici canadesi… credo. La storia è godibile e riguarda due amiche che si frequentano durante il periodo estivo, in vacanza insieme alle loro famiglie. Tale graphic novel ha ricevuto premi e riconoscimenti come una delle migliori storie di adolescenti scritte negli ultimi anni. Indubbiamente è un bel fumetto, i disegni mi hanno impressionato molto, lo stile altrettanto e la trama nell’insieme non mi è dispiaciuta, anche se non era affatto quel capolavoro di sceneggiatura che mi aspettavo dopo aver letto qualche critica o recensione qua e là che davano all’opera almeno ★★★★. I temi affrontati sono tanti, alcuni “pretenziosi”, almeno in apparenza, sopratutto la questione della “maternità”. Ossia, la madre di Rose è depressa perché pretende di avere un secondo figlio mentre una ragazza della località dove sono in villeggiatura (Awago Beach) resta incinta dopo essersi concessa al solito ragazzotto scemo che ha due neuroni a malapena funzionanti. La giovane protagonista, oltretutto, si prende una cotta pure per questo “sfigatoCosì viene chiamato nel corso della storia.“, spera meschinamente che il figlio della ragazza rimasta incinta non sia suo e la questione “maternità” per lei diventa quasi una doppia maledizione. La storia come si conclude? Non c’è possibilità di spoiler, perché è tutta qui. Conflitti? Colpi di scena? Emozioni e batticuori nel finale? Nulla di tutto ciò. Non c’è nemmeno una morale. La maternità è un dono e non un diritto, mi sarei aspettato di veder suggerito dalle autrici. Ma poi mi sono ricordato che in Occidente cose del genere sono tabù… Cosa resta di “E la chiamano estate”? Solo il resoconto di un frammento di vita scialbo e adolescenziale, raccontato senza magia. Il rapporto di amicizia tra le due ragazzine piace, ma è al quanto ordinario se paragonato a tante altre cose che potrete vedere nella vita di tutti i giorni e non assistiamo nemmeno a chissà quale crescita interiore delle due protagoniste. Lo so, sono duro. Ma non posso esaltare ciò che non mi ha emozionato neanche un po’.

La magia della fanciullezza

La locandina di “Ano Hana” mette a confronto i sei ragazzini protagonisti con le loro controparti cresciute, eccetto Menma che in realtà è rimasta bambina…

Le mie vacanze estive non saranno state le avventure de “I Goonies“, ma quella magia che solo un ragazzino sa vedere in ogni cosa a quell’età c’era tutta. Nonostante ero – e sono – un introverso della peggior specie, ero il capetto del mio gruppo, sempre pronto a inventare nuovi giochi e a immaginare nuove avventure con amici altrettanto introversi e/o creativi per nulla mediocri. Quella di “E la chiamano estate”, invece, è una storia scritta da due adulti che la magia della giovinezza sanno simularla con un notevole senso artistico e compositivo, ma che non sanno né caratterizzare i personaggi né davvero farti entrare in un conflitto forte che ti tocchi l’anima. Non sanno portarti da nessuna parte, e tutto resta tristemente immanenteTerreno e vuoto..

Gesù: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.” (Matteo 18, 3)

Così, insoddisfatto per quello che ho letto, ripiego sulla narrativa giapponese. Torno a uno dei più grandi classici dell’animazione che più mi ha colpito, ora divenuto un buon manga: “Ano Hana: ancora non conosciamo il nome del fiore che abbiamo visto quel giorno“. Come la sua controparte animata, tolto il titolo esageratamente lungo, “Ano Hana” è un vero capolavoro: ★★★★★. Non è perfetto, ma per le forti emozioni che suscita rendono irrilevanti alcune imperfezioni della sceneggiatura.

I Super Busters della Pace

I Super Busters della Pace al completo. L’immagine è tratta dall’anime prodotto A-1 Pictures e diretta da Tatsuyuki Nagai

Jintan (Jinta), Menma (Meiko), Anaru (Naruko), Yukiatsu (Atsumu), Tsuruko (Chiriko) e Poppo (Tetsudō) sono sei amici che passano ogni giornata insieme, soprannominandosi “i Super Busters della Pace“. E con il pretesto di dover “difendere la pace”, il gruppetto di amici vive giornate spensierate e piene di giochi o avventure. Jinta e Menma, particolarmente inseparabili, sono i due trascinatori del gruppo e sono profondamente stimati/invidiati dai loro amici. Tuttavia un giorno d’estate succede qualcosa di inaspettato: Anaru chiede a Jinta se gli piace Menma… Jinta, che sia per la vergogna di dover ammettere i propri sentimenti davanti a tutti che per il suo carattere sempre più chiuso per colpa della morte prematura della madre, reagisce male a tale domanda, dando della racchia a Menma che invece di piangere abbozza un sorriso come risposta. Poi il ragazzino fugge via dalla baracca nel bosco che i ragazzi usavano come “campo base”. Menma insegue Jinta per una serie di dinamiche che verranno svelate solo nel corso della storia, cade nel fiume li vicino e muore. La morte della dolce Menma, essendo legata profondamente a tutti gli altri cinque personaggi, risulta eufemisticamente traumatica.

Passano diversi anni, i ragazzi crescono ma restano psicologicamente bloccati a quel giorno.

Il manga è davvero ben disegnato e distribuito da J-POP

In modo particolare Jinta è diventato un NEETUn asociale rinchiuso in casa., sempre recluso nella sua stanza. Ma anche gli altri ragazzi, se pur in modo meno evidente, non sono del tutto riusciti a voltare pagina. La storia prende una svolta quando in un giorno d’estate, forse proprio nella stessa data di quel giorno traumatico, a Jinta appare Menma. Il suo fantasma? Parrebbe di sì, ma è piuttosto corporea e invadente. È rimasta uguale nel carattere, ossia si comporta come una bambina, ma nell’aspetto ha la stessa età di Jinta e di tutti gli altri.

La prima parte della storia si focalizza su Jinta che definisce il “fantasma” di Menma una “bestia estiva”, cioè un’allucinazione generata dal caldo, dal suo inconscio traumatizzato o dallo stress. Tuttavia, con il passere del tempo, deve ricredersi… Menma è davvero tornata! Può vederla solo lui, ma è in grado di interagire con Jinta come se fosse in carne e ossa. Uno dei difetti della sceneggiatura, su cui ci si passa sopra per amor della storia, è proprio qui: Menma può addirittura interagire con gli oggetti e questo di per sé sarebbe stato sufficiente per convincere fin da subito tutti i personaggi che la loro amica d’infanzia è davvero ritornata tra loro, anche se solo visibile a Jinta. Tralasciando questa lacuna, la storia si divide in tre atti. Nel primo Jinta deve convincersi che non è pazzo. Nel secondo realizza che Menma c’è per davvero e, suo malgrado, vengono coinvolti tutti gli altri personaggi. Nel terzo e ultimo atto si cerca di far raggiungere a Menma il NirvanaL'Aldilà., cioè di capire cosa ha di in sospeso che la blocca sulla terra.

Una storia che funziona alla grande! Come mai?

Jinta ama una defunta… c’è un conflitto più forte di questo? Vi sfido a trovarlo!

“Ano Hana” è una storia coinvolgente che si legge/vedeVolendo, su Netflix ben doppiata in italiano. tutta di un fiato. Non si può fare a meno di fermarsi, proseguendo al capitolo successivo. Colpi scena non mancano, situazioni commoventi abbondano e ogni personaggio è caratterizzato così bene da risultare fondamentale per lo sviluppo della storia. Tuttavia il segreto che fa funzionare “Ano Hana” e gran parte della narrativa giapponese è davvero semplicissimo: il conflitto. Ogni personaggio vive dei conflitti tremendi, descritti visivamente così bene da risultare chiari anche al lettore più svogliato. Sono chiamati in causa cose davvero forti: amori impossibili, sensi di colpa spaventosi, la difficoltà di accettare la morte o i propri sentimentimisteri da risolvere, ricordi rimossi perché troppo traumatici, segreti nascosti per paura o vergogna e molto altro ancora. Solo tirando in ballo i sei personaggi principali, abbiamo Jinta che ama Menma, ma lei è morta. Il ragazzo vuole aiutarla a raggiungere il Nirvana, ma non vuole nemmeno perderla di nuovo. Menma ama la vita, ma è morta. Anaru ha un senso di colpa spaventoso e non è corrisposta da Jinta. Yukiatsu vuole essere una persona buona, altruista, ma odia profondamente Jinta che fu amato da Menma. Tsuruko ha un segreto che cova dentro e che verrà alla luce solo verso il finale. Popo si sente colpevole per essere un incapace e non si sente all’altezza degli altri sempre per delle ragioni che saranno svelate solo alla fine.

Il senso della narrazione

La vita può prendere pieghe profondamente diverse, basta non saper comunicare i propri sentimenti nel momento opportuno è tutto può cambiare in modo drastico. Ma questo Dio lo permette, affinché sia chiaro che la vita è solo l’inizio di qualcosa di più grande. Il tema di “Ano Hana” verte su questo, anche se non in modo così esplicito

Piaccia o no, la narrativa, inclusa quella a fumetti, nasce per rispondere a quelle domande esistenziali che da sempre si pone l’uomo decaduto. Ci raccontiamo storie, vere o inventate, per capire il senso della vita. Anzi, un artigiano di storie ha un solo obiettivo: stabilire una relazione con il lettore per vivere insieme a lui una grande emozione che scaturisce dal più profondo desiderio dell’uomo: l’amore eterno. Tutto questo ci spiega perché qualsiasi fumetto occidentale preso a caso, spesso, non sia paragonabile per profondità a molte opere del Paese del Sol levanteIl Giappone.. Perdonate la schietezza, ma in linea di massima l’Occidente secolarizzato rifiuta o teme la morte, è ideologizzato oltre misura, non brama l’eternità, non concepisce il senso del dono ma solo i “diritti”, odia Dio e non ha la stessa introspezione di un popolo profondo come quello giapponese. Al contrario i giapponesi, narrativamente parlando, hanno chiaro il punto: esistiamo per stabilire relazioni belle e irripetibili. E in queste relazioni troviamo la vera felicità. Ma dato che la vita è breve e spesso non ci permette di risolvere malintesi, amori taciuti o non vissuti, ricostruire amicizie infrante o semplicemente di trasmettere le nostre emozioni nel modo appropriato a coloro che amiamo, esiste una sola possibilità: l’eternità. Ed è l’eternità l’unica possibilità per amare che spinge i giapponesi a fare opere che noi, almeno adesso, ce le possiamo solo che sognare. Alcuni dei nostri fumettisti le snobbano pure (invidia?), perché fare altrimenti li dovrebbe portare a guardarsi dentro… e dentro, detto tra noi, non è detto ci sia qualcosa! XD Va bene, nell’ambito dei fumetti anche noi produciamo tante opere pregevoli sul piano tecnico, ma spesso mediocri su tutto il resto. Personalmente salvo solo qualcosa di supereroistico o di parecchi anni fa… In ogni caso, se mi mettessi a fare confronti tra fumetti e manga potrei essere davvero cattivo!

Conclusione

J.R.R. Tolkien: “Esiste un posto chiamato “paradiso” dove le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze incompiute possono trovare un seguito.”

Basterebbe questa citazione di Tolkien per concludere questa mia riflessione sul senso della narrativa. In parole povere, i conflitti più grandi legati alle più profonde domande esistenziali sono il segreto di ogni buona storia. Il problema è che chi non ha da mangiare non può nemmeno nutrire gli altri. Se dunque un autore di fumetti non ambisce all’eternità, cioè inconsciamente non è attratto da Dio o non ha alcuna spiritualità, non arriverà mai a toccare l’animo delle persone come fanno tuttora grandi autori quali Makoto Shinkai, Hayao Miyazaki, Kana Akatsuki e Yasutaka Tsutsui, tanto per citare solo alcuni dei miei preferiti. E questi autori sono tutti internazionali, mentre i nostri è già tanto se vendono le loro opere fuori dall’Italia o al massimo in una parte dell’Europa.

Commenti da facebook

Commenti

5 Commenti

  1. Commentaccio irriverente a margine: “Ghost” edizione giappo, a parti invertite?

    Non conosco nè l’una nè l’altra serie se non per vago sentito dire ma me le descrivi piuttosto nel dettaglio e ho studiacchiato un po’ di narratologia. Temo che la tua contrapposizione non regga, nel senso che compara un poco pere con mele. Poco c’entra secondo me il Giappone contro l’Occidente, anzi la caducità (che però non è vista come fatuità, anzi) è una cifra più dell’Oriente che dell’Occidente (che, tranne in tempi molto recenti, ha sempre optato per idee e sistemi di una solidità ponderosa). “Tamaki” fra l’altro sembra cognome giapponese, e se fosse dovremmo pensare ad una famiglia giapponese per le due autrici canadesi, almeno una lontana influenza culturale. La contrapposizione cultural-geografica va un po’ a farsi benedire. Il divario che descrivi (parziale: entrambe le storie parlano di momenti minimi, di caso e di incomprensibilità della vita, e soprattutto di rimpianti, di sviluppi realizzati a scapito di altri con senso di perdita o di dubbio) è di altro tipo ed è un tema molto presente a chi fa fumetti, film, ecc.
    E’ la scelta (per carità, anche di mentalità) fra raccontare la quotidianità per scorci, in modo ordinario, in tutta la sua ambiguità, o mirare a inserirla in una struttura di senso forte, magari scegliendo momenti o avvenimenti effettivamente memorabili e, per buona misura, collegarli persino fra loro all’insegna di un tema portante, al limite raggiungendo un significato universale (che segna una vita, oppure che va oltre la morte di qualcuno, oppure che finisce per riguardare un po’ tutti, una costante ineliminabile del vivere, quindi al di fuori del tempo e del contesto).
    Insomma non è Oriente VS Occidente, è semmai Saga epica (pur con personaggi tendenti al realismo) VS Filmato improvvisato/ Film “Nouvelle Vague” o (con qualche notevole differenza) romanzo modernista. Non è che il secondo non vuole essere eterno o allusivo alla profondità della vita nell’istante (“yugen”) è che non gli interessa esserlo: il suo fascino sta nell’evanescenza, nell’incertezza di un momento. Niente istanti topici stile romanticismo, proprio il momento qualsiasi, non il ricordo di un momento rivelatore o essenziale: il momento per com’è stato vissuto allora, senza prospettiva. Cioè come un
    punto fra tanti, dentro una vita nel farsi. Il senso, la figura, la capisci dopo. A fare “magia”, se ti limiti così, restano solo le impressioni confuse, contraddittorie, ma umanissime e comunque fascinose e articolate. C’entra di sicuro il secolarismo VS la visione solida/valoriale/sacrale, e ancora di più la ricerca di un percorso VS la rincorsa
    di stimolo in stimolo, e non c’è dubbio che negli ultimi anni la seconda tendenza sia quella promossa, anche fino a renderla un elemento distruttivo. Però non neghiamolo: sono necessari entrambi gli aspetti e nessuno dei due può appiattirsi sull’altro o farsi inglobare nell’altro. Anche dare un senso marmoreo a fugaci (e preziosi) momenti infantili può suonare retorico se poi non li sai rievocare, rendere, attualizzare, o se nulla rimanda più ad essi. Non è nemmeno un caso che il primo racconto non abbia elementi soprannaturali mentre il secondo ci ruoti attorno, in realtà sfruttandoli come pretesto finto-fantasy per parlare del tempo che passa in maniera ben poco fantasy. E nemmeno che, a naso dalle trame, il primo racconto abbia un’atmosfera terra-terra e il secondo un antefatto da melodramma classico. E’ perché interrogarsi sul senso complessivo è poetico, solenne, meditabondo; notare invece la sottile delusione nel 90% dello scorrere degli eventi (già da quella “E” iniziale del titolo, come se si rivolesse indietro il biglietto) è consapevolmente prosaico (ma proprio perché rimanda dialetticamente ad aspettative dell’altro tipo). Anche notare l’imperfezione e l’inconsistenza, però, è mistero. Anzi è forse un mistero di grado più alto, in grado di interrogarci e disorientarci di più sul perché siamo qui e a far cosa.

    PS Sulla parte filosofica o politica sono semplicemente in disaccordo e non trovo ci sia un rapporto ovvio di conseguenza fra il discorso su cosa funziona meglio in una storia e cosa è meglio credere per vivere degnamente. In effetti di storie splendide ma senza grandi messaggi ce n’è: colgono magari un altro tipo di senso o riflettono su altri importanti elementi del vivere, anche in modo comico o episodico. Hanno comunque emozioni nonostante il diniego di massimi sistemi e profondità commoventi. Magari a qualcuno risultano più autentiche perché più frequenti nella realtà (ah, se avessimo amori grandiosi e amici fidati a ogni angolo!) e più immediate. Poi sei troppo di parte quando ti scagli contro “le ideologie” che per te discendono come conseguenza della mancanza di un senso nella vita (usi il termine quasi come sinonimo di “tormentoni”, “comportamenti di massa”, “idee diffuse”, “mode dominanti”). Quelle non sono ideologie, neanche in senso tecnico: qualunque ideologia (compresi gli insiemi di valori, anche propri di una religione) è proprio il contrario, una serie di idee combinate coerentemente in maniera indiscutibile, nel tentativo (spesso troppo imposto) di coprire ogni buco d’incertezza e precarietà e offrire un senso-ricetta per tutta l’esistenza dell’aderente (a prezzo, se totalitarie, della sua capacità di farsi domande). Ma sono cose nate per chi vuole un senso, magari condiviso e omologante ma chiaro (quello che, ad es., il comunismo cinese chiama “armonia”) non per chi vuole perdersi in una folla amorfa (come quella in fila per l’acquisto).

    Scrivi una risposta
    • Le due sorelle Tamaki, salvo il cognome, hanno prodotto un’opera che di giapponese, culturalmente parlando, non ha davvero nulla. Non è il cognome a fare un giapponese, ma la realtà in cui è immerso l’individuo che forma e plasma il suo inconscio. Naturalmente è una cosa ovvia. Qui non stiamo parlando di epopea – ma, come tu ammetti, non hai letto tali opere e, così, stai facendo un discorso per partito preso. Dunque sterile a mio avviso, perché ideologizzato e non basato sulle emozioni trasmesse dalle due opere da me analizzate. Infatti, che senso ha discutere su di un articolo che è la recensione di due opere che nemmeno hai letto? Boh, solo tu lo sai. Sicuramente sei stato toccato in qualche tua idolatria. In ogni caso, entrambe le opere sono “drammatici di vita quotidiana”, ma seguono regole diverse… Nel primo caso c’è un blando conflitto che non viene nemmeno risolto, nel secondo ne abbiamo almeno sei, tutti uno più forte o profondo dell’altro, è hanno una risoluzione che permette di creare quell’interesse che porta il lettore con ansia e passione verso il finale della storia (con tanto di colpo di scena!). Nella prima storia il finale non emoziona. Anzi, non c’è proprio (‘finale tagliato’, nel gergo per esperti del settore)! E ciò lascia solo l’amaro in bocca, mentre nel secondo caso “Ano Hana” commuove profondamente. Questo non è un “dettaglio” e francamente non capisco come tu possa definirti uno che ha “studiacchiato un po’ di narratologia”. Forse, se non cogli una tale ovvietà non hai capito la finalità della narrativa. Però su una cosa hai ragione: l’epica o l’epopea, cioè il viaggio dell’eroe, tende a valorizzare il conflitto e lo sviluppo psicologico del protagonista, come ben spiegato da Vogler. Essendo un genere, quello “eroico”, profondamente legato a quesiti esistenziali, cioè un viaggio scandito dalle tappe evolutive del cosiddetto “eroe” che apprende la sua vocazione passo dopo passo, che in Giappone lo si prediliga viene da sé per le ragioni esposte nell’articolo che non starò a riscrivere. Torna su e leggi! La contrapposizione c’è, perché stiamo confrontando due culture profondamente diverse. Ma pure questa è un’ovvietà.

      Riguardo all’ideologia (credenza assoluta in qualcosa di esposto a tavolino), alla pari della religiosità fine a se stessa, che ho criticato tante e tante volte in molti miei articoli – nonostante io sia tendenzialmente cattolico -, piaccia o no, crea solo inutili sovrastrutture mentali (la cosmogonia mentale per essere esatti!) che per ragioni che adesso non approfondirò uccidono la creatività o possono ucciderla se non si è dotati di un bel po’ di elasticità mentale (cosa rarissima negli ideologizzati!). La realtà vista solo da un punto di vista forzato non è mai di aiuto. Non mi riferisco a casi demenziali come “La corazzata Potëmkin” che è l’esempio dell’anti-narrativa per eccellenza, ma ai polpettoni di sinistra di registi e sceneggiatori che non meritano nemmeno di essere citati e anche ai polpettoni pseudo-cattolici come “Don Matteo” nel caso della fiction. Anche “Tex Willer”, piace meno ai più giovani perché, diversamente dalla vecchia generazione ideologizzata dai partiti e dalla Chiesa, non concepiscono più – GRAZIE A DIO! – l’eroe quale essere infallibile o “buono artificialmente perfetto”, ma preferiscono un Dylan Dog fallibile e umano, anche un po’ ridicolo a tratti, dove c’è un conflitto ben delineato e la possibilità di empatizzare con l’autore che vuole trasmettere al lettore qualcosa capace di emozionante entrambi. L’empatia è un elemento fondamentale, che se manca in un’opera è assai grave!

      Scrivi una risposta
    • Concordo con molto del tuo discorso, ma le giapponesi, soprattutto donne, che vivono in occidente (dove spesso c’è un razzismo di fondo contro gli asiatici) e a maggior ragione in nazioni totalmente SJW (non nel suo senso letterale, che sarebbe pure positivo, ma nell’ottica moderna in cui siamo per l’accettazione delle religioni, ma il cristianesimo è merda, e siamo contro il razzismo ma a un asiatico, meglio se uomo, gli possiamo dire ching chong chang e ogni altro insulto) come il Canada, di giapponese hanno pochissimo a livello culturale, spessissimo sono le prime a odiare le loro radici asiatiche e in particolare gli uomini della loro nazionalità, cercando espressamente relazioni con uomini di altre nazionalità e dimostrando una forte immaturità nei confronti della figura paterna (negli uomini asiatici vedono loro padre e le loro radici, che sotto sotto odiano grazie anche a dei media che fanno di tutto per screditare l’uomo asiatico, e quindi per ribellione cercano altro) che poi è trasversale a queste società.

      Che poi una cosa bella del Giappone è che come nazione ha abbastanza capito come il buddhismo e altre dottrine ingannevoli non diano una vera felicità, e pure quando ne usa elementi c’è una genuina ricerca alla verità delle semplici relazioni, cosa che secondo me li avvicina molto di più a un’ottica cristiana. Ovviamente non sono sempre degli esempi di moralità, piccola immagine d’esempio:
      https://m.imgur.com/nqXG2q2

      Per questo e altri motivi quando Alex pac parla di quando “il Giappone sarà tutto Cristiano”, ci vorrei sperare ma ho anche i miei forti dubbi XD

      Poi vabbè sulle culture io separerei molto “oriente” da “Giappone” proprio perché ci sono troppe differenze per generalizzare… il Giappone forse è così proprio per il macello di mix di culture che gli è arrivato (che in parte ha generato cose positive come quelle analizzate da Alex Pac, dall’altra artefatti assolutamente infelici per cui questa non è la sede), il resto dell’Oriente ha avuto storie molto diverse (dal comunismo cinese ai bigottismi dell’India che ancora oggi generano tragedie).

      Scrivi una risposta
      • Sì, si parla solo del Giappone, il resto dell’Asia è un altro discorso…

        Comunque io non ho scritto che il Giappone diverrà tutto cattolico, ma se volete lo faccio adesso. Adesso sembra impossibile, ma tra nemmeno qualche decennio la situazione cambierà… e i giapponesi saranno più cattolici di noi. Come faccio a sostenere una cosa del genere?! Beh, è un segreto… ma se ho il coraggio di fare un’affermazione così forte o esagerata, fidati di me, una ragione valida ce l’ho per davvero! Tra qualche anno spiegherò meglio questo mio punto di vista. Adesso è un po’ prematuro…

        Il Giappone è shintoista e da sempre non ha mai avuto strutture dogmatiche come le nostre, rimanendo aperto a diversi punti di vista, tanto che i giapponesi possono essere sia buddisti che shintoisti senza sentirsi in contraddizione nonostante le due religioni non siano così conciliabili come si crede superficialmente da noi. Aggiungiamoci il fatto che da dopo la seconda guerra mondiale il Giappone è stato letteralmente travolto dalla cultura occidentale che i giapponesi non hanno potuto metabolizzare né integrare veramente con quella giapponese, venendosi così a creare, come giustamente hai detto tu, un “mix” che rende la cultura giapponese piena di contraddizioni, paradossi, ma anche piuttosto “fluida” e aperta alla ricerca del bello e della Verità. Inoltre, il forte senso estetico dei giapponesi non è un fattore secondario e condiziona la loro narrativa. Non essendo ideologizzati come noi occidentali, i giapponesi hanno sviluppato una narrativa più libera e aperta al trascendente, arrivando anche a delle intuizioni nell’ambito del religioso che da noi in Occidente sono dei veri tabù anche per i più cattolici. Non faccio esempi, ma di articoli che dimostrano ciò… beh, ne ho scritti fin troppi!

        Koyomi, affermi anche un’altra cosa molto interessante: il rifiuto della figura paterna che condiziona le ragazze di origini asiatiche immigrate in Occidente le porta a odiare gli uomini asiatici… è vero! L’Occidente si basa sul rifiuto della paternità, in un narcisismo spaventoso, che in Asia è inconcepibile. Forse è vero, il giapponese medio sarà un po’ maschilista rispetto a un occidentale, ma questo rifiutare la figura paterna come meccanismo difensivo ha conseguenze spaventose che portano anche al rifiuto dell’autorità religiosa: Dio. Poi tutto ciò a Lui legato, trascendente incluso. Ecco spiegato perché alcune autrici occidentali spesso e volentieri cadono in un femminismo acido che rende le loro opere non sempre così profonde e aperte alla bellezza della paternità. E la paternità, quella vera, è saper morire per la donna amata e per la prole, come Cristo ha fatto per amor della sua sposa: la Chiesa! Lo spiega Paolo di Tarso del resto.

        Scrivi una risposta
  2. Sociologicamente parlando è interessante approfondire il perché nelle recenti opere, sia fumettistiche che narrative in generale, ci sia questo aspetto della semplice “fotografia” dell’attimo più che una storia vera e propria. Personalmente credo che sia una fase che fa da specchio alla società odierna, ma che non durerà per sempre. Le vere narrazioni sono quelle che superano i limiti temporali, rimanendo sempre vive, e queste sono le storie classiche, che rievocano gli archetipi presenti in ogni mito e cultura. Campbell ci ha visto bene bene nella sua analisi dei miti e, che piaccia o no agli autori di oggi, le Grandi storie sono quelle che alla fine rispecchiano questo percorso, che tende ed è capace di cogliere qualcosa “oltre” il mero scorrere degli eventi. Come diceva Italo Calvino “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.

    Scrivi una risposta

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

quattro × 3 =

Author: Alex Pac-Man

Cultura cattolica: Affascinato dalle storie di Arda, ho cercato di capire perché Tolkien sostenesse che a essere immaginario è solo il tempo in cui sono ambientati i suoi racconti. Ho così iniziato un lungo cammino, che mi ha portato ad amare il Libro della Genesi e tutto ciò che riguarda la protologia, fino all'esperienza del percorso dei 10 Comandamenti di don Fabio Rosini. La fede cristiana è soprattutto un'esperienza di bellezza, ben lontana dall'ideologia e dall'emozionalità di chi la riduce ad un sterile atto di cieca convinzione. Cultura nerd: Le mie prime idealizzazioni furono plasmate dai capolavori di Shigeru Miyamoto, quali "A Link to the Past" e "Ocarina of Time", che, magari sarà azzardato dirlo, racchiudono in sé un po' tutta l'essenza del mito. Il mio essere un nerdone comincia dall'amore per la narrativa, per il fumetto e tutto ciò che porta alla storia delle storie.

Share This Post On
Share This